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Digitalizzazione del no profit? Forse sì, forse no … ci devo pensare

L’11 settembre 2001 è stato un anno che ha segnato per l’umanità, non solo il
crollo delle Twin Tower, in seguito a un grave atto terroristico, ma è stato anche la

metafora del crollo delle nostre sicurezze. Da quel momento, le vite di tutti noi
sono cambiate. Nessuno poteva immaginare che una nazione, come gli Stati Uniti
d’America, avrebbe mostrato tutta la sua vulnerabilità. Quella data sarebbe
diventata un ammonimento per ognuno di noi: non ci sarebbe stato più un luogo in
cui avremmo potuto dire di essere veramente al sicuro.
Il 9 marzo 2020 è, invece, la data in cui il governo italiano ha imposto il lockdown
al nostro Paese, in seguito all’evento pandemico che ha messo in ginocchio le
nazioni della Terra. Per lunghi mesi, le famiglie italiane hanno vissuto segregate
tra le mura di casa, mai, prima di quel momento, c’è stata una convivenza così
intensa. Un evento inaspettato ha cambiato, nei momenti di isolamento, il nostro
stile di vita, il modo in cui relazionarsi con gli altri, l’approccio all’igiene
personale.

Ma qual è il legame tra questi due grandi eventi del XXI secolo?

Sebbene diversi nel modo in cui si sono palesati in tutta la loro potenza a livello
mondiale, questi eventi hanno cambiato in maniera irreversibile molti dei nostri
modi di vivere. Focalizziamo l’attenzione, in particolare, sul periodo del lockdown
per via del Covid-19. La chiusura forzata di gran parte delle attività ha messo in
crisi gli imprenditori che, in gran parte, hanno reagito o con un totale
immobilismo, o dissipando energie personali addossando responsabilità alle
istituzioni pubbliche che, a loro dire, avrebbero dovuto farsi carico delle loro
preoccupazioni. In questa sede credo sia inutile lasciarsi attirare dalle sirene delle
polemiche e dei giudizi, più utile è, invece, rimanere su una lettura di cosa sia
avvenuto e di come molti hanno reagito a un tale evento disgraziato. Un punto
fermo, sotto gli occhi di tutti, è il cambiamento del comportamento del
consumatore. A cambiare sono state soprattutto le sue esigenze, con la
conseguenza che quelle aziende che, rispetto ad altre, hanno saputo intercettare in
tempo reale gli interessi del target, si sono potute attrezzate anche per rivedere i
loro modelli di business ottenendo, conseguentemente, un vantaggio competitivo
rispetto ai loro principali competitors.

Le aziende che, invece, non hanno saputo cogliere nella pandemia un’opportunità,
si saranno chieste: siamo veramente sicuri che il nostro target voglia essere
avvicinato anche in situazioni estreme, come quelle indotte dal contagio da Covid-
19? Le aziende più intraprendenti non ci hanno pensato su due volte, non hanno
perso tempo a rivedere le loro politiche di comunicazione e hanno cercato di
ridurre il divario tra offline e online, pur di non perdere il contatto con i loro clienti.
Altre imprese hanno, addirittura, intrapreso strategie che prima non avevano mai
provato. In questi casi, il ricorso a strumenti avanzati (Google Trends, canali social
network, YouTube, campagne Display, campagne per App, o, ancora, l’uso di
piattaforme e-commerce, quelle per video conferenze, o realtà aumentata, ecc.) ha
rappresentato per molte aziende un’ancora di salvataggio del loro business; in
questo modo, non si è perso tempo a dimostrare tutta la vicinanza del brand alla
propria comunità di utenti.
Pur rischiando di essere banali, è appena il caso di far notare che la tecnologia a cui
sopra di faceva cenno, esisteva anche prima del lockdown, la pandemia ha solo
accelerato la sua diffusione. L’aspetto ancor più pleonastico da far notare è che la
tecnologia ha un’applicazione trasversale, che la vede perfettamente adatta anche
nel Terzo Settore. Il dubbio è quello di pensare che la forte componente sociale
delle attività del Terzo Settore possa essere un limite alla smaterializzazione
parziale o totale.
La verità è che siamo entrati in quella che viene considerata la quarta rivoluzione
industriale (Industry 4.0). Rispetto alle precedenti tre rivoluzioni industriali,
quest’ultima si distingue per il fatto che non esiste una particolare tecnologia
emergente, ma è una prosecuzione della precedente rivoluzione, ovvero un
ulteriore sviluppo della tecnologia ICT, accompagnata da un’importante diffusione
di Internet. È evidente che l’innovazione tecnologica non può essere più vista come
una risposta immediata a un evento contingente, ma bisogna avere la
consapevolezza che siamo di fronte a un fatto nuovo: la tecnologia diventerà
sempre di più uno dei pilastri per la costruzione di strategie competitive delle
aziende e il Terzo Settore non è fuori da questa dirompente trasformazione
digitale.
Se negli anni passati il boicottaggio degli investimenti in tecnologia era all’ordine
del giorno, adducendo che in azienda le priorità erano altre, oppure anteponendo la
scusa che le risorse finanziare non erano sufficienti, dimostrando in questo modo
una scarsa visione strategica, oggi provare a trovare dei motivi per rimandare un

ammodernamento dell’infrastruttura tecnologica dell’azienda è solo una delle
forme di eutanasia a cui può ricorrere il Terzo Settore. La difficoltà di affrontare la
questione dell’innovazione tecnologica da parte del Terzo Settore non è diversa da
quella che devono affrontare tante piccole e medie imprese. Diciamoci subito che
non esiste una ricetta segreta che, se svelata, risolverebbe, come per magia, il gap
tecnologico del Terzo Settore. La soluzione, sebbene banale per qualcuno, scontata
per altri, va cercata nella motivazione del management che, vedendo nella digital
transformation non una barriera ma un’opportunità di crescita, sarebbe invogliato a
rimboccarsi le maniche per trovare il modo di continuare a far vivere il sogno
imprenditoriale nel mondo no profit, potenziato dal supporto della tecnologia.

Un recente rapporto https://www2.deloitte.com/it/it/pages/private/articles/la-
domanda-di-innovazione-del-terzo-settore—deloitte-italy—d.html firmato dalla
Fondazione Italia Sociale, da Deloitte Private e da TechSoup Italia, ha raccolto il
punto di vista di circa 180 realtà operanti nel Terzo Settore in Italia, per cercare di
capire quale fosse lo stato dell’arte dell’innovazione tecnologica. Il report ha
evidenziato che il 96% del campione sente l’esigenza di innovare, ma queste parole
trovano un’applicazione pratica solo in un piccolo gruppo di intervistati che ha
avviato una pianificazione strategica di medio-lungo periodo. Uno dei freni
all’avvio di questo importante cambiamento è causato, per il 61% delle
organizzazioni, proprio dai collaboratori interni. Ma, oltre all’inibizione interna, è
stato evidenziato dal rapporto anche un’altra anomalia: spesso si attivano delle reti
tra organizzazioni al fine di portare a compimento specifici progetti, purtroppo si
costruiscono queste forme di collaborazione scegliendo di mettere insieme delle
realtà aziendali simili, con la conseguenza che una tale modalità operativa
precluda, il più delle volte, l’attivazione virtuosa di una forma di reciproca
“contaminazione” tra diverse culture aziendali. Una “contaminazione” che è
difficile riscontrare è, per esempio, proprio nell’ambito della digital
transformation. Il rapporto, inoltre, ha messo a nudo un ulteriore freno inibitore
alla digitalizzazione e che rimanda non solo alla carenza di risorse economico-
finanziarie, ma anche a un livello alquanto basso delle competenze digitali dei
collaboratori del Terzo Settore.

Le barriere che rallentano il processo di rinnovamento del Terzo Settore in ambito
tecnologico, evidenziate dal suddetto rapporto, potrebbero avere tutte, a
prescindere dal motivo scatenante, un’unica fonte: un deficit in termini di cultura
aziendale. Se prima dell’avvento pandemico si poteva addurre all’ansia da tech una
certa resistenza delle persone al cambiamento e all’approccio all’innovazione

tecnologica, ora dopo un lungo peridio di lockdown, siamo di fronte a un approccio
più friendly verso la tecnologia. A sostenerlo è un altro rapporto, il Digital Society
Index, https://www.dentsu.com/reports/techlash_or_techlove_asa, realizzato da
Dentsu Aegis Network a livello globale, coinvolgendo 32.000 persone in 22 diversi
paesi. Nel rapporto si parla addirittura di un fenomeno che prende il nome di Tech-
love, nel senso che la digitalizzazione ha contribuito, durante il periodo di
quarantena, a migliorare, in qualche modo, la nostra società. Secondo lo studio,
circa un terzo delle persone coinvolte nella ricerca, ha dichiarato che le soluzioni
digitali hanno aiutato ad alleviare il periodo di isolamento e che le stesse hanno
messo in condizione le persone di connettersi con amici e persone a loro care.
L’aspetto sorprendente, come si vede dal grafico qui di seguito riportato, è che
l’Italia non solo ha fatto registrare un indice, riferito alla percezione del beneficio
che la tecnologia ha avuto nella società, superiore alla media mondiale, ma è anche
la nazione, tra quelle europee, ad aver registrato il valore più alto in assoluto. Per
quanto possa sembrare un po' semplicistico, si può ritenere che i tempi siano
maturi per iniziare a pensare seriamente a un rinnovo non solo degli investimenti
infrastrutturali di natura tecnologica, ma anche a un investimento formativo teso a
eliminare i gap di competenze digitali che sono ancora molto presenti nella
popolazione italiana.

C’è, però, un altro aspetto che sorprende e che viene evidenziato nello studio in
questione: la tecnologia digitale, così come è stata conosciuta durante il periodo di
lockdown, è considerata la più idonea a dare una grande mano nella soluzione di
problemi globali come la salute, la povertà, il degrado. Il grafico qui di seguito
riportato, dice proprio questo: le persone che ripongono sempre di più la propria
fiducia nella digitalizzazione sono passate dal 42% nel 2018, al 45% nel 2019 e al
54% nel 2020.

L’appeal verso la tecnologia digitale non è solo un fatto riconducibile alle fasce di
età più giovani, per esempio i nativi digitali, in realtà anche le generazioni che un
tempo si mostravano meno sensibili, o, forse è il caso di dire, erano più ostili al
cambiamento tecnologico, hanno compreso che la digitalizzazione è stata
un’ancora di salvezza nei mesi duri in cui si era costretti a stare chiusi in casa.
L’home banking, i social media, le piattaforme di sharing, il gaming, lo streaming,
l’e-commerce, le piattaforme di video conferenza e così via discorrendo, sono
diventate tecnologie un po' più note e famigliari. Fanno meno paura.
Il Terzo Settore non può pensare di essere estraneo a questa rivoluzione digitale e
questo è ancora più vero se consideriamo, dopo il lockdown, che molte persone,
avendo acquisito un nuovo stile di vita, non sono disposte più a rinunciarvi (per
esempio si pensi anche alla comodità dello smart working). Questo non vuol dire
che l’offline è stato soppiantato dall’online; offline e online conviveranno
perfettamente e le persone sceglieranno l’uno o l’altro in funzione di quale, in quel

preciso momento, sarà considerato il più comodo e/o conveniente. Un tale
atteggiamento aumenta le aspettative delle persone e, di contro, le aziende, come
quelle che operano nel Terzo Settore, non possono continuare a ritardare la
trasformazione digitale delle loro strutture aziendali. Il Terzo Settore è forse quello
che, rispetto ad altri settori economici, dovrà dimostrare di saper utilizzare il
processo di digitalizzazione per agire sul bene comune e contribuire a migliorare il
benessere della collettività.
Proviamo, dunque, a porci queste domande: il Terzo Settore è pronto a dare
dimostrazione di cosa significhi mettere in pratica la responsabilità sociale
nell’era della digitalizzazione? Saprà riprendersi il legame con il territorio di
appartenenza e la sua comunità, attraverso un’immagine rinnovata che cavalca
con disinvoltura la quarta rivoluzione industriale? E, ancora, saprà essere
altrettanto concreta e propensa al dialogo anche nel mondo digitale, così come,
per anni, ha dimostrato di esserlo brillantemente nel mondo reale?

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